Alla Nova Eroica con una Cinelli Nemo. Un racconto nel racconto

2022-08-05 06:43:13 By : Ms. Daisy Wang

Benedetto Croce sosteneva che, prima di scrivere di qualcosa che ci ha toccati direttamente, bisogna sempre lasciare alle emozioni il tempo di decantare. Potrei dirvi che questo è il motivo per cui un articolo sulla Nova Eroica 2022 viene pubblicato più di un mese dopo la manifestazione, ma mentirei. Il fatto è che mi sono bloccato. Non il blocco dello scrittore che vedete in tanti film scadenti – scrivere è una reazione fisiologica che si può facilmente stimolare, con un po’ di pratica – ma qualcosa di più malsano. Mi sono bloccato perché stavo cercando di scrivere in maniera accomodante, in modo da soddisfare tutti: rispettando le regole della SEO, per far contento il Direttore di Cyclinside; limitando la lunghezza dell’articolo, per adattarmi alle brutte abitudini del lettore medio su Internet; obliando alcuni possibili difetti della bicicletta che graziosamente mi era stata data in prova e, allo stesso tempo (il che dovrebbe darvi la cifra del mio disagio mentale), cercando di mascherare il fatto che sono innamorato delle biciclette Cinelli dalla prima volta che ne ho vista una sotto il grazioso “derriere” della mia amica Alberta. In altre parole, stavo facendo di tutto, meno che raccontare qualcosa di interessante; e questo è empio. Ho deciso per ciò di appallottolare metaforicamente la prima stesura ruffiana di questo articolo e di ricominciare da capo, scrivendo tutto ciò che mi viene in mente di scrivere, fosse anche la gamba sifolina di mio padre, se questo può servire a divertirvi (in senso stretto) dalla “brutale realtà di questo sfavorevole anno di Nostro Signore”, duemilaventidue. Andiamo a incominciare.

Ognuno ottiene ciò che vuole. Io volevo una gravel e per i miei peccati me ne hanno data una. Era una bicicletta veramente eccezionale e, quando ebbi finito di usarla, non ne avrei più voluta un’altra.

Mussolini annunciò l’entrata in guerra dell’Italia il 10 Giugno 1940, il giorno dopo la fine del Giro d’Italia. Quel giorno, mio padre era a piazza Venezia e, anche se la leggera forma di poliomielite che aveva contratto da bambino lo metteva relativamente al sicuro da un coinvolgimento diretto nel conflitto, mi raccontò che si sentì scendere dentro un grande gelo. Fatte le debite proporzioni, qualcosa di simile l’ho provato anche io al termine dell’edizione 2020 di Nova Eroica, quando, dopo quelli che sarebbero stati gli ultimi due giorni felici dell’anno, salutai i miei amici e risalii in auto per rientrare a casa, dove mi aspettava un nuovo lockdown, molto più lungo del precedente e, come se non bastasse, il ritorno dell’ora solare. Tornare a Buonconvento quest’anno, quindi, aveva per me il valore di un esorcismo; era un modo per dire al Virus: Siamo di nuovo qui, stronzo; e non ci fai più paura.

Né le previsioni né l’anticiclone africano che stazionava sul Mediterraneo lasciavano sperare in un po’ di fresco per quel fine settimana, ma la cosa non mi preoccupava minimamente. Due settimane prima, infatti. avevo dovuto vendere la mia Zydeco perché era di una misura troppo grande per me (mi ero illuso che la “M” sul telaio significasse: Media, mentre in realtà voleva dire: Minchia, come li facciamo grandi, i telai, in Cinelli!) e mi preparavo quindi a seguire la corsa unicamente in veste di spettatore/cronista, comodamente seduto nella Citroen Picasso del Direttore di Cyclinside.

Invece, qualche giorno prima della gara, mi era arrivato un messaggio di Francesca Luzzana, responsabile della Comunicazione per Cinelli, che mi chiedeva se il Sabato avevo voglia di provare una delle loro Nemo. Ora, non so quali siano i vostri gusti in fatto di femmine e di biciclette, ma per me è stato come se mi avessero chiesto: “Sabato, ti andrebbe di provare Jennifer Lopez?”. Incurante dell’afa annunciata, ho accettato entusiasticamente e mi sono andato a documentare su quella che sarebbe stata la mia dama al Gran Ballo di Buonconvento.

I fall in love too easily, come dice la canzone, ma nel caso della Nemo è stato inevitabile, perché ha tutte le caratteristiche della bicicletta dei miei sogni:

È prodotta in Italia : non solo il telaio, ma ciascun componente della bicicletta è un prodotto italiano di alta gamma: dal cambio Campagnolo Ekar ai copertoni Pirelli, dalle ruote Fulcrum alla sella Italia; questo non fa alcuna differenza, in termini tecnici, ma ha un’enorme valenza emotiva, perché non ti fa sentire in colpa né nei confronti di ipotetici lavoratori asiatici minorenni e sottopagati, né nei confronti dei dati sull’import/export della componentistica (rispettivamente: 706 e 528 milioni di Euro, nello scorso anno);

È un prodotto industriale, realizzato con cura artigianale : ci sono costruttori cinesi che si vantano di poter assemblare una bicicletta in 25 secondi; il signor Emilvano, responsabile della produzione di Cinelli ci mette un po’ di più, perché deve trafilare ciascun tubo del telaio affinché abbia il minimo spessore possibile in funzione dello sforzo che deve sopportare, ma il risultato finale compensa ampiamente il ritardo;

È in acciaio : tre amici escono per un giro in bicicletta; uno ha la bicicletta con il telaio in carbonio, uno in alluminio, uno in acciaio; in un punto particolarmente scosceso del percorso, tutti e tre causano dei danni alla propria bicicletta: chi, dei tre, ha più probabilità di tornare a casa in autonomia? fatti tutti i possibili distinguo del caso, a meno che la rottura non avvenga a Genova, Ravenna, Fiumicino o in altri luoghi dove si costruiscono barche, trovare chi saldi l’acciaio è sicuramente più facile che trovare chi saldi l’alluminio o ripari il carbonio. Steel, is real; carbonio e alluminio, non fanno rima;

È monocorona : un mio amico, ottimo meccanico, mi ha catechizzato per un intero pomeriggio sulla superiorità della doppia corona rispetto alla corona singola; io non dubito che per lui sia così, ma per me, che guardo le due viti di registro del deragliatore della corona con lo stesso reverenziale timore con cui mio nonno guardava il telecomando del suo primo televisore a colori, non dovermi preoccupare di un altro deragliatore, un’altra leva del cambio e un altro cavo di acciaio è un piacere non da poco, perché quello che non c’è, non si può rompere e soprattutto, non va registrato.

Anche se i miei bagagli sono pronti dalla sera prima, Venerdì non riesco a partire prima delle 17:00; un po’ perché vado lungo su alcune questioni di lavoro, un po’ perché non me la sento di mettermi in viaggio con una temperatura da deserto siriano. Verso le 17:30 avviso Francesca che sto imboccando l’A1, ma che non penso di riuscire a ritirare la Nemo per quella sera. “Noi siamo qui fino a verso le sette e mezza,” mi risponde lei. “Quando arrivi, passa; se ci siamo, ti dò la Nemo.” Guardo l’orologio e il tempo di arrivo previsto dal navigatore. “Ce la posso fare,” penso, ma un attimo dopo aver varcato il casello, realizzo che ho finito il GPL e sono in riserva con la benzina. L’area di rifornimento di Fiano è alle mie spalle e non so fra quanti chilometri ce ne sarà un’altra, così guido al minimo sindacale dei giri fino al casello del Soratte, dove esco in cerca di un benzinaio. Il più vicino, secondo Waze, è sulla SR657, “Sabina” a circa quindici chilometri. Ci arrivo, il gestore è estremamente gentile, ma non ha il GPL; poco male, metto benzina e chiedo dove posso trovare un distributore di gas. Scopro così che ce n’è uno a soli cinque chilometri dal casello, ma il mio navigatore, che evidentemente ha un animo ambientalista, me lo ha tenuto nascosto come forma di ritorsione per quello che la Exxon Valdez fece in Alaska nel 1989. Tornato sui miei passi e fatto il pieno di gas, rientro in autostrada e guido senza ulteriori problemi fino a Buonconvento, dove arrivo però dopo le 20:00, quando allo stand Cinelli/Campagnolo ormai non c’è più nessuno. “Passerò a prenderla domani mattina”, penso, poi mi avvio verso il banco degli accrediti Stampa, dove trovo Livio Iacovella, il Paolo di Tarso di Eroica, e Alessandra Ortenzi in versione “Orgoglio pieghevole”.

Le fatine degli accrediti registrano i miei dati e mi informano che alloggerò all’Hotel Roma, raccomandandosi di andare a ritirare la chiave della stanza prima delle 22:00 perché poi la reception chiude. Livio mi dà il buono per la cena, che si terrà al Museo della Mezzadria e mi informa che il mio Direttore è già lì (è questa capacità di anticipare gli eventi, che distingue un vero giornalista sportivo come Guido da un dilettante come me); io, per evitare che si senta solo, rimando il mio check-in e lo raggiungo. Cenare in un museo può essere un bene o può essere un male. Se la cena la organizza un archeologo, declinate l’invito o preparatevi a rimpiangere i fast-food dei centri commerciali; se invece la organizzano dei gentiluomini come Livio o Franco Rossi, state pur certi che sarà qualcosa di memorabile. Il che non vuol dire che ve la ricorderete; anzi..

Quando il Twitter dei volatili di Buonconvento mi sveglia, alle 05:49 della mattina dopo, ho dei ricordi piuttosto vaghi della sera precedente (una banale questione di educazione: avendo scoperto che il vino che ci stavano servendo era prodotto da una delle persone che era a cena con noi, mi ero fatto un punto d’onore di berne il più possibile per non sembrare scortese). Come i personaggi di: Una notte da leoni, quindi, le uniche informazioni certe che ho, sulla notte fra il 24 e il 25 Giugno 2022, sono quelle che mi vengono raccontate dalle mie macchine fotografiche. So che abbiamo mangiato i Pici all’Aglione, un po’ per la fiatella, un po’ perché l’ho scritto su Facebook e so per certo che Alessandra ha cercato di uccidermi prestandomi la bicicletta Tiziana per andare a prendere le chiavi della mia camera, perché ho un video, realizzato con la GoPro che tengo legata allo spallaccio del mio zaino, in cui semino il panico fra gli abitanti di Buonconvento sfrecciando ebbro fra la folla su un mezzo privo di freni come un’aspirante porno-diva. Tutti gli altri ricordi hanno una connotazione onirica: cosa è successo, dopo la cena? quando ho portato i miei bagagli in camera? e soprattutto: ho subìto una visita andrologica o il sellino della bicicletta Tiziana non era del tutto orizzontale? Dopo una doccia e una colazione con tanti liquidi vado allo stand Cinelli/Campagnolo per prendere possesso della “mia” Nemo, che, come accade solo alle migliori stelle del Cinema, dal vivo è più bella che in fotografia.

Visto da lontano, il telaio della Nemo ha la studiata semplicità di un progetto di Mies van der Rohe, ma è guardandolo da vicino che se ne possono apprezzare i particolari costruttivi, come le saldature Tig senza materiale di apporto, i foderi verticali a sezione aerodinamica, omaggio al telaio della Laser o i forcellini posteriori che riprendono la forma del logo Cinelli. Quello che non si vede, ma che è un’altra delle peculiarità della Nemo, è lo spessore estremamente ridotto dei tubi del telaio. Il tubo obliquo, per esempio, ha un diametro di 44mm e uno spessore che varia da 0.4 a 0.6 millimetri; da quattro a sei volte lo spessore di una lattina di Coca Cola, per capirsi.Tutto questo, unito alle ruote Campagnolo Levante, realizzate con tecnologia HULC (Hand Made Ultra-Light Carbon), fa sì che, quando sollevo per la prima volta la Nemo, ho l’impressione che alla bicicletta manchi qualcosa, per quanto è leggera. Tempo fa, mio cugino scrisse all’autore di un libro sulle divise della Lazio, facendogli notare un errore nel colore dei calzettoni indossati dai giocatori in un particolare occasione; l’altro rispose: “Sei malato anche tu, eh?”. Ecco: quando guardo una bicicletta Cinelli, mi vien voglia di chiamare in fabbrica e fare la stessa domanda. Pleonastica. Dalla produzione Cinelli traspare quella continua ricerca della perfezione che è, a mio modo di vedere, la caratteristica prima di un’opera d’arte. Non a caso, la “nonna” della Nemo, ovvero la Cinelli Laser nominata poco fa, ricevette nel 1991 il premio Compasso d’Oro:

Per la corretta fusione tra la tradizione classica della bicicletta ed il contributo tecnologico e di design al servizio del miglioramento prestazionale.

Una motivazione che ricorda molto il modo in cui la Treccani descrive il lemma Artifex:

colui che esercitava un’ars intesa come mestiere non intellettuale, ma richiedente un complesso di cognizioni tecniche al servizio di una particolare attitudine.

Ammessa pubblicamente la mia incapacità di essere pacato, riguardo la Cinelli (è solo per un residuo di dignità che ho evitato riferimenti alla luce dell’arte meccanica di San Bonaventura), torniamo alla corsa. Prendo possesso della Nemo, poi torno in albergo a cambiarmi (un’operazione, questa, che sono certo non vorrete vedere descritta in dettaglio) e a prendere la Nikon. Al momento di uscire, però, mi accorgo di non avere il casco; la sera prima, nella mia ebbrezza alcolica, l’ho dimenticato nel portabagagli dell’auto. L’auto è parcheggiata dall’altra parte della Cassia, più o meno all’altezza della linea di partenza e, in condizioni normali, non ci vorrebbe molto, per andare a prenderlo, ma sfortunatamente mancano pochi minuti al Via e il corridoio transennato che taglia in due Piazza Garibaldi – separandomi dalla Cassia e quindi dall’auto – è gremito di ciclisti. Cerco un varco fra le transenne, ma finisco intrappolato come il Minotauro, perciò, facendomi odiare da almeno una cinquantina di persone, comincio a farmi strada fra i ciclisti in attesa e, come vuole il Cielo, riesco ad arrivare dall’altra parte. Metto al sicuro la mia scatola cranica da possibili danni cerebrali permanenti, poi torno rapidamente indietro mentre lo speaker scandisce gli ultimi secondi prima della partenza e mi infilo nel passaggio laterale riservato al Ciclo Club Eroica e agli ospiti della manifestazione. Per un momento mi sento in colpa, poi penso: “Sono ospite: è mio diritto”.

Sulle note di I Was Made For Lovin’ You, dei Kiss, facciamo il periplo della mura di Buonconvento e imbocchiamo il breve tratto di SP34 che ci separa dall’inizio dello sterrato. È più o meno a questo punto che mi rendo conto di non avere nulla da bere. Genio: ho ben due borracce – quella della Cinelli e quella che ho trovato nel pacco-gara -, ma sono entrambe vuote. Fa troppo caldo per pensare di riempirle al primo punto di ristoro, anche perché non so dove sarà il primo punto di ristoro, così, sono costretto a tornare indietro, risalendo la fiumana dei ciclisti, per fare rifornimento alla fontanella davanti all’Hotel Ghibellino. Alle 08:11 attraverso nuovamente lo stretto ponte sulla SP34 dove mi ero appostato a fare foto nel 2020 e poco dopo sono sul primo tratto di strada bianca che ci porta fino a Ponte D’Arbia. Qui, fatto un breve tratto di Cassia, imbocchiamo un nuovo sterrato, questa volta in salita.

La mia Nemo si sta comportando molto bene e, con i suoi i tredici rapporti, da 9 a 42 denti, fa il possibile per supplire alle mie carenze atletiche. Gli unici difetti che ho riscontrato finora, oltre alla posizione della sella, troppo avanzata, sono un’inaspettata rigidità sui tratti di sterrato segnati dai cingoli dei trattori (“Perché non ne vietano la circolazione, una settimana prima di queste gare?”, mi chiedo, mentre cerco di non perdermi per strada le mie otturazioni dentali) e un’imbarazzante scorrevolezza in discesa. E intendo “imbarazzante” in senso stretto: nelle rare occasioni in cui ci imbattiamo in un tratto in cui posso demandare all’attrazione gravitazionale l’onere della mia deambulazione, anche senza pedalare vado vergognosamente più veloce degli altri concorrenti, che mi rivolgono sguardi sdegnosi, come a dire: “So’ bravi tutti, a correre in discesa..” Il primo difetto (la sella) è colpa mia: avrei dovuto controllarla meglio quando ho ritirato la bicicletta; gli altri due difetti pure, ma il sangue che mi arriva al cervello, al momento, è troppo poco per permettermi di capire che ho le gomme troppo gonfie. Il problema è (ve lo spiego mentre il me stesso letterario ansima come Darth Vader su un’inquietante salita fiancheggiata da cipressi) che io sono abituato ai ritmi dell’Eroica tradizionale, che prevedono: arrivo, cena e abusi alcolici il Venerdì; hangover e messa a punto della bicicletta il Sabato; corsa la Domenica. Il fatto che Nova Eroica si corra il Sabato mi ha privato del mio giorno di assestamento, costringendomi a condensare in un’ora quello che di solito io faccio in mezza giornata. Se fossi riuscito a ritirare la Nemo ieri sera, come aveva proposto Francesca, avrei avuto il tempo di provarla e di prepararla per la gara; così, invece, sono sì in compagnia di Jennifer Lopez, ma lei indossa scarpe con i tacchi alti, del tutto inadatte alla strada che dobbiamo percorrere insieme.

Su una curva in salita vedo i primi due metri quadri di ombra che incontriamo da un’ora a questa parte, così, con la scusa di fare qualche foto, mi fermo e riprendo fiato. Non sono solo: malgrado lo spazio disponibile sia esiguo, ci sono altre due persone con me. Non posso fare a meno di ripensare a delle pecore che ho visto ieri poco dopo aver fatto benzina: erano ammassate sul fianco in ombra di un viadotto insieme a un asino e avevano l’aria di pensare: “Greta ve lo aveva detto!!”. L’unica differenza, fra noi e loro, è che noi siamo qui di nostra spontanea volontà. Qualcuno alle mie spalle mi saluta: è Giovanni Battistuzzi e anche lui sta provando una Nemo, ma di colore rosso. Aspetto che riprenda fiato, poi proseguiamo insieme.

Quando arriviamo a un cartello che indica: Discesa Pericolosa, accendo la GoPro per facilitare le cose a mio fratello quando dovrà incassare il premio della mia assicurazione sulla vita, poi proseguiamo:

l’un dinanzi e l’altro dopo, come i frati minor vanno per via

A differenza di Virgilio, che era una persona prudente, Giovanni è uno scellerato per cui il termine: “freno” è solo sostantivo e mai verbo. Si lancia in discesa come se non ci fosse un domani (cosa che potrebbe corrispondere al vero, vista la strada) e dopo la terza curva, già non lo vedo più. In compenso, il discesone della morte mi permette finalmente di apprezzare tutte le qualità della Nemo, che, malgrado le mie frequenti pinzate sui freni, scorre sullo sterrato a dorso di mulo come se fosse asfalto. Non è comoda come la mia mountain-bike bi-ammortizzata, ma è altrettanto precisa nelle curve e, malgrado la scarsa confidenza reciproca, mi dà sempre un grande senso di sicurezza. “Se vado per terra,” penso, “sarà per colpa mia, non sua”. Dopo un paio di minuti vedo che non muoio e, lentamente, comincio a rilassarmi. Tolgo il freno a mano e torno in vista di Virgilio. In alcuni punti ho perfino l’ardire di lasciare la presa bassa e mettere le mani sul manubrio. Poco prima di una curva cieca, un segnale a bordo strada segnala un pericolo: un punto con delle nervature, probabilmente causate dalla pioggia nel Precambriano. Io e la Nemo lo passiamo spavaldi, ma la nostra sicumera ha vita breve, perché in fondo al rettilineo che ci si apre davanti vedo delle persone ferme e la sagoma color giallo fastidio di un’ambulanza.

“Ma il tuo segreto, quale è?”, mi chiede Giovanni, fermo a pochi metri dall’ambulanza, quando lo raggiungo. “Vai piano sia in salita che in discesa..” “Allenamento,” rispondo. “Io lavoro molto su queste cose.” Sulla curva c’è un’altra ambulanza, dentro c’è qualcuno. Seguitiamo a sparare cazzate per far finta che non poteva succedere lo stesso anche a noi. “Io sono piantato in salita,” dice Giovanni. “E scemo in discesa.” “Tu sei scemo sempre,” rispondo. “Corri troppo.” “Correre è sbagliato,” dice lui. Bevo un sorso d’acqua, poi chiedo: “Cosa è successo?” “Eh, si è fatto male,” risponde laconico Giovanni, che siccome si è fatto crescere i baffi alla Maigret deve ostentare un atteggiamento distaccato nei confronti della vita. Sfiliamo al lato dell’ambulanza e riprendiamo a pedalare, ma con calma. La strada è rettilinea e in pianura. “È cascato sull’ultima curva,” penso. “Sfiga.”

Giovanni e io procediamo al piccolo trotto fino a quando arriviamo all’incrocio con la strada provinciale, dove troviamo Francesca con il gruppo dei ciclisti Cinelli. Sono piacevolmente stupito dal vedere che anche lei è in sella a una Nemo: il mio personalissimo Inferno ha un Girone dedicato a chi si occupa di Comunicazione (è un livello intermedio fra il Girone del Marketing e quello destinato a chi scrive “tutto apposto”) e scoprire che anche in quell’ambiente esistono persone che amano l’oggetto del loro lavoro mi commuove quasi quanto conoscere un politico onesto. Ma non c’è tempo per i sentimentalismi, nel duro Mondo delle corse gravel: mentre una delle due ragazze del gruppo di Francesca si fa disinfettare un’abrasione al polpaccio, io approfitto della loro officina mobile per farmi correggere la posizione della sella, poi le nostre strade si separano: i Cinelli vanno a destra, sul percorso da 90 chilometri, mentre io, che comincio a soffrire il caldo, vado a sinistra, sul percorso più breve. Sono di nuovo da solo perché Giovanni, dimostrando una volta di più la sostanziale veridicità dei modi di dire popolari, è andato appresso alle femmine, ma non gli porto alcun rancore: l’avrei fatto anche io, avessi avuto la sua età.

Dopo circa cinque chilometri di salita, arrivo al punto di ristoro, che, scopro, si trova all’interno di una sorta di agriturismo. All’inizio del breve tratto di strada privata che porta dalla Statale all’interno della struttura, c’è un signore che premurosamente mi dice di fare attenzione, perché la strada è sterrata; lo ringrazio e pedalo verso la musica. I banchi del punto di ristoro sono posizionati su uno stradello in ghiaia, alle spalle di un basso edificio in mattoni. Dall’altra parte dello stradello c’è un filare di cipressi che dà ombra a un prato in leggera pendenza su cui sono sparse delle sedie a sdraio invitanti come le sirene di Ulisse. Sulla destra, alla fine del prato, il campionario delle tentazioni è completato da una piscina con vista sui campi di grano sottostanti. Ci sono biciclette ovunque, appoggiate al tronco dei cipressi, sui muri di mattoni a vista e sul prato; i ciclisti oziano all’ombra dei cipressi (in senso buono) seduti sulle sdraio o sull’erba.

C’è un banco dove cuociono delle uova al sugo; ne prendo due e me le vado a pappare seduto su una sdraio al fresco, ma inciampo nell’erba con le scarpe da bicicletta e condivido le uova con la mia maglietta. Mi pulisco come posso, poi scrivo un SMS a Livo:

L’Eroica è l’unica manifestazione sportiva dove ti sporchi di sugo

Anche se sono solo le dieci, il caldo comincia farsi sentire e io sono molto tentato dall’idea di togliermi le scarpe e di buttarmi in piscina – l’azzurro dell’acqua è molto più invitante dell’ocra delle strade bianche su cui abbiamo pedalato finora; temo però che, se io mi tuffassi, tutti gli altri mi verrebbero dietro. Provo a immaginarmi la scena: un centinaio di ciclisti e cicliste sudati e sporchi di terra che, liberi da qualsiasi ansia competitiva, si gettano nell’acqua come bufali all’abbeverata e restano lì a sguazzare felici come giovani leoni marini.. Potrebbe essere l’inizio di una nuova Era dell’Acquario, ma non posso farlo: non sarebbe gentile, né nei confronti dei nostri ospiti né nei confronti delle opime turiste nordiche che affollano la piscina stessa, esibendo abbronzature bicolori che le fanno somigliare a una manifestazione di esuli polacchi. Con un encomiabile sforzo di volontà decido quindi di ripartire, ma non ho voglia di guardare la mappa del percorso per capire dove devo andare, così mi accodo a un gruppo di ragazzi con cui ho scambiato due chiacchiere poco prima (una di loro ha una Zydeco Lala) e lascio che siano loro a guidarmi. Torniamo in fila indiana sulla strada asfaltata e, dopo un breve tratto di falso piano, cominciamo a scendere verso Monteroni d’Arbia. Il comportamento della Nemo mi piace sempre di più: è tanto reattiva nei tratti lenti quanto stabile e precisa quando la velocità aumenta. Click, click, click, click.. i rapporti del cambio Ekar sembrano non finire più (anche perché stavo salendo su una pendenza tutto sommato risibile con il 42) e, mentre sorpasso senza pudore tre dei miei quattro compagni di cammino, mi chiedo se voglio davvero ricomprarmi una Zydeco.. Quando la discesa finisce e dobbiamo ricominciare a pedalare, davanti a me c’è solo un ragazzo con la maglia rossa ma poco dopo mi sorpassa anche una delle due ragazze che ho superato poc’anzi. Fosse quella con la Zydeco Lala, potrei pure lasciar correre, in tutti i sensi, ma questa ha una Specialized color grigio borghese e io non posso tollerare un simile affronto al made in Italy. Cambio marcia, bevo un sorso di acqua e poi comincio a pedalare più veloce che posso. Mi venisse un infarto, posso sempre registrare un messaggio di addio alla mia famiglia con la GoPro. Incurante del bip bip con cui il mio Garmin mi avvisa che ho più di 150 battiti al minuto, sorpasso prima la fanciulla e poi il ragazzo con la maglia rossa. Davanti a me, c’è solo un nastro di asfalto fiancheggiato da campi di grano. Sopra di me, aleggia lo spettro dell’arresto cardiaco. Dopo circa un chilometro di fuga solitaria sorpasso un pensionato sovrappeso che va più lento di Alessandra sulla sua Tiziana, poi rallento perché non vorrei sbagliare strada e finire a Pieve di Cadore; seguo le indicazioni stradali blu e bordeaux de L’Eroica e raggiungo un altro punto di ristoro.

Fra un succo di frutta e un pezzo di crostata, importuno Angela, la moglie di Livio, sperando che lui si ingelosisca e mi picchî, costringendomi al ritiro. “Tutto bene?” mi chiede Angela. Rispondo di sì, ma che il caldo mi sta stroncando. “Se ce la fanno i Tedeschi, ce la potete fare anche voi,” mi rimprovera Angela, indicando una graziosa signora bionda che io ho già incontrato mentre salivo al punto di ristoro con piscina. Susanna, questo è il nome della teutonica, ha perso il marito (non nel senso che lui è morto, ma che hanno avuto degli inconvenienti durante il viaggio e di lui non si hanno più notizie), ma questo non le ha impedito di partecipare ugualmente alla corsa. Non posso fare a meno di chiedermi se ci siano altre attività che Frau Susanna sarebbe interessata a portare a termine anche in assenza del coniuge, ma il mio è solo un interesse teorico: al momento, l’unico pensiero capace di eccitare la mia libido è quello della doccia che mi farò appena rientrato in albergo. “I’ve seen your professional equipment,” dice Susanana indicando la GoPro sullo spallaccio del mio zaino. In un Inglese che ricorda molto quello di Alberto Sordi ne Il Tassinaro, rispondo che è l’unica cosa professionale che ho. Spiego poi (in Italiano, lasciando che Angela traduca) che uso la GoPro come scatola nera quando vado in bicicletta nel traffico di Roma. Il mio assicuratore sa che, se dovessi avere un incidente, deve guardare il video per sapere cosa è successo realmente. Quando Susanna va via, mi accorgo che con noi c’è anche Eddy Zanenga e che anche lui sta provando una Nemo. Ci dice due frasi di numero, giusto per non far capire che è restato lì solo per la bionda, poi prosegue sul percorso “Crete senesi”, da 90 chilometri. Io ho due alternative: o proseguo sul percorso da 60 chilometri (sono circa a metà) oppure riprendo la cassia e torno a Buonconvento. C’è una parte di me che non vorrebbe mollare, ma ce n’è un’altra che vorrebbe riuscire ad allacciarsi le scarpe da sola domani mattina e che teme che se mi venisse un infarto o un colpo di sole o un colpo di sole e poi un infarto ciò non sarebbe possibile. Siccome è quest’ultima, la parte del mio carattere che porta a casa lo stipendio, il mio animo romantico deve rimandare a momenti migliori il suo rendez-vous con la salita delle Sante Marie: si torna a Buonconvento.

Mentre pedalo sul “Diagonalone” (cfr. Benni) da Monteroni a Buonconvento ho l’impressione di andare come un treno, ma il grafico della velocità del mio GPS riporta valori da Coppa Kobram. Gli unici dati esaltanti sono quelli del plug-in Beers Earned Plus che converte le calorie in boccali di birra (in giallo nel grafico qui sopra): nelle 2h 18′ di moving time ho bruciato 1.314 calorie, pari a 8.2 boccali della birra che bevo di solito. Chissà a quanti piatti di Pici all’Aglione corrispondono. La Cassia è praticamente deserta e l’asfalto rimanda calore come un parcheggio ad Agosto. Schivo Lucignano, ripasso per la piccola ma graziosa Ponte d’Arbia, attraverso l’Ombrone ed entro nel villaggio di Piazza Garibaldi. Il mio stato rinunciatario non dà diritto alla medaglia commemorativa, perciò mi tengo sulla destra del corridoio di arrivo e riporto subito la Nemo allo stand Cinelli, così non mi viene la tentazione di caricarla sull’auto e scappare. Francesca ovviamente non c’è: è da qualche parte nel deserto fra Palmira e Damasco con Giovanni e T.H. Lawrence. Mi rifocillo con un po’ di zuppa di farro e completo la tavolozza cromatica della mia maglietta tirandoci sopra anche un po’ di succo di anguria. Faccio qualche foto degli arrivi, ma i concorrenti arrivano alla spicciolata – o da soli o in gruppi di tre/quattro amici – e le foto sono meno peculiari di quelle che si possono fare all’Eroica tradizionale, dove trovi sempre qualcosa di bizzarro da fotografare: una bicicletta, la scritta su una maglia o magari un paio di baffi. Scatto una foto al gruppo di ragazzi con cui sono sceso verso Monteroni, poi me ne vado in albergo per una doccia e un’oretta di sonno.

Tre ore dopo mi sveglio, mi faccio un’altra doccia ed esco. Fa ancora caldo, ma gli stand sotto alle mura di Buonconvento finalmente sono in ombra e buona parte della Sala Stampa è seduta lì a chiacchierare. È strano pensare che è già tutto finito, anche se è solo Sabato sera. All’Eroica Café c’è Giovanni, che sta leggendo “The Great Shark Hunt”, di Hunther Thompson e recupera i liquidi persi durante la gara con un integratore salino prodotto nella zona fra Brescia e il Lago d’Iseo. Ne prendo un bicchiere anche io: quando fa molto caldo, l’idratazione è importante. “Non so ancora di cosa parlare,” mi dice. “Mi sa che scriverò un pezzo in prima persona, anche se non lo faccio quasi mai.” Il Franciacorta, unito al caldo, ottenebra le mie capacità intellettive (è per questo motivo, che lo bevo), ma sono abbastanza certo che la sua sia una lamentazione apotropaica, come quelli che prima di un esame ti dicono: “Mi bocciano, non so un cazzo” e poi scopri che hanno preso trenta. Se invece fosse vero, sarebbe una diversa manifestazione del problema che ho avuto poco prima, con le foto dell’arrivo: Nova Eroica è una bella gara, molto divertente, ma è ancora giovane e non ha un suo carattere consolidato. Scriverne adesso è un po’ come cercare di raccontare qualcosa di interessante su un Baby Shower, ma vedrete che è solo una questione di tempo: la pupa sicuramente crescerà e diventerà bella come la sua sorella maggiore e nel 2045, quando mio nipote parteciperà alla gara con la Cinelli Nemo vintage che avrà ricevuto in eredità da suo zio, sono sicuro che i giornalisti accreditati non avranno alcuna difficoltà a meritarsi il loro piatto di Pici con l’Aglione.

Come ho avuto modo di scrivere altrove, io non amo gli ibridi.

Siamo circondati da oggetti grazie ai quali compiamo le stesse operazioni che, fino a qualche tempo fa, richiedevano due strumenti diversi. Uniamo un computer con un telefono e otteniamo uno smartphone; uniamo un fuoristrada con una berlina e otteniamo un SUV; uniamo uno spinnaker con un Genoa e otteniamo un Gennaker. Ciò che possiamo fare – male – con questi bastardi (nel senso patronimico del termine) lo avremmo potuto fare – bene – con i loro genitori, ma sarebbe stato più complicato e questo è un aggettivo che l’Uomo del terzo millennio aborrisce.

Nel mondo del ciclismo, però, abbiamo il problema opposto. Le fabbriche di biciclette ci permettono oggi di avere una bicicletta specializzata per la maggior parte delle attività umane: biciclette da città, da viaggio, pieghevoli, da corsa, cross-country, downhill, endurance, ciclocross, cargo, vintage.. il tutto a propulsione muscolare o elettrica. Come le borse delle nostre gentili signore, ciascuna di queste biciclette ha un àmbito di utilizzo piuttosto ristretto: con una Baguette di Fendi non puoi fare quello che fai con una Birkin di Hermès; devi possederle entrambe. Se sei un professionista delle due ruote, poco male: le bici sono uno strumento di lavoro e te le puoi anche scaricare dalle tasse, ma per i comuni mortali l’estrema specializzazione delle biciclette è spesso un problema, sia in termini di denaro che di spazio. L’avvento delle gravel ha invertito questa tendenza alla specializzazione e ha permesso a noi comuni mortali di avere una bicicletta che possiamo usare con soddisfazione sia sulle piste ciclabili che all’interno dei parchi urbani. Possiamo farci una gita fuori porta lungo una strada provinciale senza dover contrastare la resistenza al rotolamento di un copertone tacchettato e se vediamo uno stradello sterrato che porta a un luogo di qualche interesse turistico (o a una cantina vinicola), possiamo concederci una deviazione senza timore di fare danni. Ho acquistato la mia Zydeco ad Aprile, come supporto emozionale all’inasprirsi del conflitto in Ucraina (“La prendo a rate,” ho pensato. “Così, se la nostra civiltà viene spazzata via da una guerra termo-nucleare totale, almeno mi risparmio qualche pagamento..”). Da convinto avversatore degli ibridi, pensavo che sarei rimasto deluso e invece è stata la bicicletta più divertente che abbia mai avuto. Fino alle sette di mattina del 25 Giugno, pensavo anche che fosse la più bella.

Ulteriori informazioni: https://cinelli.it/it/

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